Danilo Filius

Ricordo di Danilo Filius

Danilo Filius e il vicesindaco Luisa Marusca Baretto il 3 ottobre 2015 durante la presentazione a Porto Valtravaglia del libro 'Voci della seconda guerra mondiale


Il giovane Danilo Filius

Cari amici

vi devo purtroppo annunciare con grande dolore la notizia della morte del più anziano partigiano della zona, DANILO FILIUS di Porto Valtravaglia, che ha raggiunto comuque la veneranda età di 97 anni. E' stato un valoroso combattente sulle alture intorno al Mottarone, a fianco dei fratelli Caravelli, col nome di battaglia di Bob. Il 24 aprile 1945, Bob fu uno dei primi ad entrare in Milano, seduto sull'autoblindo di Cino Moscatelli, commissario politico del raggruppamento delle divisioni garibaldine della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano. La sua storia è pubblicata sul libro edito dall'ANPI di LUINO "VOCI DALLA SECONDA GUERRA MONDIALE". I suoi funerali si terranno, domani, Lunedì, 30 aprile, alle ore 14,45 presso la chiesa parrocchiale di Domo Valtravaglia. Invito tutti a parteciparvi per rendere omaggio alla memoria di questo grande partigiano, che abbiamo incontrato fortunatamente l'estate scorsa, insieme con il sindaco di Porto Valtravaglia e la Presidente Provinciale
Ester De Tomasi.


Danilo Filius

IL PARTIGIANO DANILO FILIUS “BOB”

descritto nel libro

Bob era il suo nome di battaglia.
Il partigiano Danilo Filius lo ricorda con orgoglio, ripercorrendo quella sua giovinezza spericolata, in cui fu costretto dagli eventi a giocare a rimpiattino con la morte che ogni giorno ghermiva qualche suo compagno di lotta.
Il suo racconto fluisce lieve sull’onda dei ricordi che affollano la sua mente e si accavallano come flutti irrefrenabili in una notte di bufera.
La sua voce, evocatrice di epiche imprese, è quella di un patriarca del tempo antico che ribadisce a se stesso e agli altri i motivi ideali per i quali ha rischiato la vita.
Ora, alla veneranda età di 94 anni, può permettersi di fare un bilancio di quella esperienza e magari di chiedersi, senza falsi pudori, se ne è valsa realmente la pena.
Questa Italietta degli scandali è veramente quel Paese che gli uomini della Resistenza hanno vagheggiato?
Si era arruolato Danilo Filius nel 1940 nel 1° Carristi di Vercelli, che sembrava destinato ad una spedizione militare in Africa, ma all’ultimo momento il convoglio dovette accamparsi a Caltagirone, alla periferia della città, in un aranceto di proprietà di un barone locale.
La marcia riprese alla volta di Zafferana alle pendici orientali dell’Etna e successivamente verso Messina che dista circa 80 chilometri.
I soldati italiani marciavano al seguito delle milizie della Wehrmacht tedesca, bersagliata dal mare dalle forze alleate, intenzionate ad interrompere la percorribilità della litoranea, con martellanti scariche sulla parete rocciosa.
A Messina, per motivi precauzionali, i soldati italiani vennero disarmati e costretti a salire su zatteroni di fortuna diretti a Villa S. Giovanni.
Qui dovettero rifugiarsi in un deposito di armi della Marina, ricavato in una galleria ferroviaria dismessa.
Quando si resero conto che i Tedeschi, incalzati dagli alleati, li avevano abbandonati al loro destino, cercarono di fare rientro al loro battaglione.
Giunsero a piedi a Battipaglia, poiché la tratta ferroviaria era gravemente danneggiata, i ponti distrutti, le strade pressoché impraticabili.
Un’avventurosa risalita lungo lo stivale, tra sorprese ed imprevisti.
Con una tradotta riuscirono però a raggiungere la stazione di Torricelli a Roma e da qui, sempre in treno, la città di Siena.
Ritornati nella caserma di Vercelli, durante una memorabile adunata del 1° Reggimento Carristi, vennero chiamati a compiere una scelta cruciale: o collaborare con i Tedeschi o subire una mortificante deportazione in un campo di concentramento in Germania.
Solo una decina di persone comunque accettarono le umilianti profferte dei Tedeschi.
Intanto Danilo era assalito da continui accessi di febbre.
I medici gli avevano diagnosticato una probabile infezione malarica che veniva trattata con iniezioni di bismuto.
Dopo l’8 settembre gli Italiani vennero sostanzialmente considerati dai Tedeschi come spregevoli traditori.
Da qui la decisione di deportare le truppe non collaborazioniste nei campi di lavoro, al servizio della vittoria del terzo Reich.
Mentre stavano per essere caricati sul treno in partenza per la Germania, Danilo, con una spericolata fuga, si sottrasse alla deportazione.
Un amico in servizio nella polizia riuscì a procurargli una divisa da ferroviere che gli consentì di tornare a Porto Valtravaglia con la littorina di Novara.
Iniziava da quel momento un travagliato periodo di incertezza, fra timori e speranze per una rapida conclusione del conflitto bellico.
Danilo lavorava clandestinamente in un’officinetta che costruiva torni per l’esercito, ma era spesso costretto a nascondersi per sottrarsi ai frequenti controlli delle brigate nere.
La repubblica sociale italiana puniva, infatti, con la pena di morte i renitenti alla leva.
Nell’autunno del ’43, in un gruppo di 10-12 persone, tra i quali anche il fratello Omero, salì sul Monte S. Michele.
L’intenzione era quella di aggregarsi alle formazioni che avevano occupato il S. Martino, ma la richiesta era stata respinta.
Avrebbero però certamente rischiato di essere catturati, se una donna, chiamata la Gunda, non li avesse informati che i Tedeschi stavano organizzando un rastrellamento a largo raggio anche sul S. Michele.

Messa al campo di Purazzaro

Assaliti dal panico, fuggirono verso Montegrino dove un amico, Costantino Grassi, detto Nin, che faceva il macellaio li rifocillò.
Erano bagnati fradici ed avevano preso in considerazione la possibilità di fuggire in Svizzera.
Un certo Feltrin, tra l’altro, aveva già procurato loro delle divise da aviatori.
Dopo i tragici fatti del S. Martino, un certo Del Conte aveva rimediato una fornitura di moschetti.
Poterono così riorganizzarsi ed operare ancora tra il S. Michele e la zona di Muceno, avendo come base di riferimento un appezzamento di proprietà Petrolo.
Un giorno furono raggiunti da una camionetta dalla quale scesero tre individui in borghese che prospettarono loro la possibilità di aggregarsi ad una fantomatica formazione partigiana.
L’appuntamento era fissato a breve scadenza durante la notte sulla strada di Laveno.
Per fortuna il loro amico Del Conte che si era imbattuto negli stessi loschi figuri a Varese, vestiti di tutto punto con la divisa nera, li informò tempestivamente di non recarsi all’incontro: si trattava, infatti, di un agguato in piena regola.
Il giorno dopo decisero pertanto di partire per Travedona Monate e Cadrezzate dove si accamparono in una cascinetta abbandonata.
Potevano placare la fame che li divorava solo introducendosi negli orti per racimolare qualcosa da mettere sotto i denti.
Finalmente a Golasecca si incontrarono con i fratelli Leopoldo Bruno «Mitra» e Carlo «Jonson» Caravelli, coi quali attraversarono il lago per acquartierarsi sulle alture intorno al Mottarone, verso Arona.
Percorsero tutti i valichi sopra Meina e si fermarono all’Alpe Verdina.
Così la descrive Leopoldo Bruno Carabelli nel suo libro «Memorie di un “ribelle”»1: «Quell’alpeggio montanaro, frequentato dai malgari del luogo, si trova posto a circa 700 metri di altitudine, tra le Bocchette di Colazza e di Silvera e può essere praticato soltanto attraversando queste due vie.
Non vi è altra alternativa per poterlo raggiungere.
Dista da Ghevio e da Colazza circa un’ora di cammino, su mulattiera, ed è posto appena sotto il costone roccioso che scende dalla montagna e che gli fa da riparo. A quel tempo, dovendo porre al sicuro le nostre reclute per il necessario periodo di addestramento, ci parve quel luogo un vero e proprio nido d’aquila, muniti com’eravamo delle sufficienti coperture partigiane che vigilavano verso la valle, sia dalla località di Ameno, presieduta dalla Brigata “Bariselli”, sia verso Colazza, difesa dalla Brigata “Volante Azzurra”.
In ogni caso di attacco, saremmo potuti intervenire per dare man forte, sia alla “Bariselli”, in dodici minuti, che alla “Volante Azzurra” in venti minuti.
Questa località strategica era quin di un sicuro rifugio ed un efficace punto di partenza per eventuali controffensive.
Constava allora di quattro baite.

Gianni e Danilo Filius

In una abitava, in quel settembre, quando noi pervenimmo, il malgaro con le sue bestie, al quale concedemmo di rimanere, anche se, quando vide che faceva “caldo”, pensò bene di trasferirsi in luoghi più sicuri. Nelle altre tre stabilimmo il nostro quartier generale.
Nella prima baita, una casupola di pietra con il tetto di lastroni posta proprio all’inizio dell’Alpe, era sistemato il Comando logistico: una ventina di uomini.
Nella seconda e nella terza alloggiammo tutti gli altri partigiani, divisi in distaccamenti.
E così trascorremmo un lungo periodo che va dal settembre al novembre 1944».
Durante un attacco da parte dei Tedeschi e dei fascisti, Carlo Caravelli venne ferito.
Nell’agosto 1944, infatti, “Mitra” e “Jonson”, mentre si trovavano ancora sulla sponda lombarda per reclutare nuovi partigiani, subirono un duro colpo.
Erano in quei giorni ospiti della famiglia Bea e stavano studiando l’operazione di rientro all’Alpe Verdina.
“Mitra” era salito al piano superiore della casa per riposarsi.
“Jonson” invece era rimasto al piano terra.
Verso le 18 uno sparo svegliò di soprassalto “Mitra” che dagli scuri della finestra vide il fratello ferito a terra circondato da un gruppo di militi della Brigata “Muti”, con le armi puntate verso di lui.
“Mitra” fece appena in tempo a saltare dalla finestra e a dileguarsi tra i boschi, braccato dalla milizia fascista.
“Jonson” fu trasportato all’ospedale di Varese, in una camera, presidiata da due militi della brigata nera.
Pochi giorni dopo, con un’audacissima azione, le GAP, infiltratisi nell’ospedale, riuscirono a liberarlo e a portarlo in salvo presso una famiglia di Castelletto Ticino di sicura fede partigiana.
Per procurarsi le armi, Danilo ricorda di aver partecipato ad una spedizione all’aeroporto di Vergiate che si sapeva sorvegliato da militari italiani.
I partigiani con la complicità del buio strisciarono attorno al reticolato come faine in cerca della preda.
Poi immobilizzarono le guardie.
Anche questo episodio è narrato con dovizia di particolari da Leopoldo Bruno Carabelli nel suo libro: «Sull’imbrunire del giorno 22 ottobre, partimmo dall’Alpe Verdina.
Avevamo scelto gli uomini migliori ed avevamo composto un distaccamento di dodici partigiani.
Ricordo che fra loro erano “Moro”, “Dik”, “Atos”, “Dino” e “Bob”.

Partigiano Athos-Antonio Costalunga

Una formazione coi fiocchi, di prim’ordine.
Marciammo tutta la notte fra molteplici insidie, attraversando Silvera, Invorio, Paruzzaro, Oleggio, Castello, Comignago, Castelletto Ticino.
Non incappammo, fortunatamente, in alcun posto di blocco.
Da Castelletto Ticino attraversammo l’ampio fiume con una barca, perché il ponte era rigorosamente presidiato.
Approdammo fuori di Sesto Calende, in località Golasecca.
Arrivammo a Vergiate verso le cinque del mattino.
Ci appostammo nei boschi circostanti l’aeroporto, nascondendoci ed attendendo che passasse la giornata.
Ci nutrimmo con pane e formaggio, con qualche scatoletta di carne, delle gallette, qualche bottiglia di vino e riposammo in attesa dell’azione.
Venne sera.
Una sera dolce, incantevole.
Il cielo fu pieno di stelle.
La luna, nell’atto culminante della sua ascesa, illuminava soffusamente tutta la piana. Pensammo che fosse di buon auspicio questo meraviglioso spettacolo della natura, anche se la luce indiscreta della luna non ci fu di totale gradimento.
Solo “Jonson” ed io eravamo al corrente dell’obiettivo.
Tutti gli altri ne vennero informati all’ultimo momento.
Verso le 22 del giorno 23 ottobre ebbe inizio l’attacco.
In quell’ora, come stabilito, c’incontrammo con due membri della GAP: uno di Vergiate e l’altro di Corgeno.
Conoscevano molto bene la zona, evidentemente, e ci fecero strada.
Giungemmo nei pressi dell’aeroporto.
Passammo vicino al cimitero di Vergiate; attraversammo la strada e scavalcammo la rete metallica posta a recinzione dell’aeroporto.
I due gappisti ci segnalarono dove era ubicato l’acquartieramento delle guardie.
Senza sparare un sol colpo, riuscimmo a sorprenderle e a catturarle.
Le legammo, imbavagliammo e le chiudemmo in un hangar, ponendo di guardia un nostro uomo.
Immediatamente dopo, corremmo verso gli aerei.
Si trattava di percorrere allo scoperto circa cento metri.
Lo facemmo d’un fiato.
Il primo lavoro fu quello di staccare le mitragliere dagli aerei. “Jonson”- ex motorista d’aviazione - sapeva bene come le armi erano avvitate alle fusoliere.
Vennero svitate, sganciate e ricuperate, insieme ad un numero notevolissimo di nastri contenenti parecchie migliaia di colpi.
Armi e munizioni furono affidate a sette partigiani che le portarono a spalla in riva al lago, in una località posta tra Lisanza e Angera.
Lì un barcaiolo della SAP li attendeva.
Nastri e mitragliere furono caricati su di una barca.
Sulla stessa presero posto i sette partigiani che avevano ricevuto da me e “Jonson” l’ordine di raggiungere da soli la riva piemontese.
Così fecero e, dopo l’attraversamento del lago, sbarcarono tra Meina e Arona, in località Pontecchio.
Di lì partirono, sempre con le armi e le munizioni in spalla e, attraverso Dagnente, Ghevio e Silvera, raggiunsero l’Alpe Verdina.

Danilo Filius (Bob), Gianni e Jonson

Mentre queste cose avvenivano, i partigiani rimasti all’aeroporto insieme a me e a “Jonson” cercarono e trovarono in un hangar alcuni grossi fusti, contenenti benzina.
La benzina venne gettata mediante taniche sulle fusoliere e sulle ali dei quadrimotori.
Ricordo che “Jonson” voleva lanciare contro gli aerei cosparsi di liquido infiammabile una bomba a mano, ma io lo dissuasi, temendo che la deflagrazione attirasse su di noi pattuglie nemiche circolanti nella zona.
Accendemmo delle semplici torce di carta e con quelle demmo fuoco ai quadrimotori.
Fu il più incantevole spettacolo pirotecnico al quale abbia mai assistito in tutta la mia vita.
E quella notte, già così bella, divenne ancora più bella.
Naturalmente il nemico, agli scoppi, alle vampate, accorse numeroso.
E così ci trovammo a dover eludere formazioni della “X MAS” di stanza a S. Anna, nei pressi di Sesto Calende e formazioni naziste alloggiate all’albergo Buenos Aires di Castelletto Ticino.
Con una manovra aggirante sfuggimmo alla loro presa e guadagnammo il Ticino.
Con un’altra barca, messa a nostra disposizione dai gappisti, approdammo a Castelletto e quindi raggiungemmo a piedi Borgoticino.
Prendemmo per la boscaglia stava albeggiando e ci dirigemmo lestamente verso Silvera e l’Alpe Verdina.
Vi giungemmo verso le otto del mattino e vi ritrovammo i nostri sette partigiani ed il nostro pingue bottino.
Ci abbracciammo.
Gli auspici della notte stellata, della luna piena, si erano mostrati benevoli».
Termina così il racconto di Leopoldo Bruno Carabelli dal quale emerge la grande stima che nutriva nei confronti del partigiano “Bob”.
Le formazioni partigiane – ricorda Danilo - erano coordinate dai due fratelli Carabelli che fungevano da ufficiali di collegamento tra i vari distaccamenti.
Diverse furono le azioni condotte con grande coraggio e determinazione, come l’attacco ed il conseguente incendio del deposito di armi di Gavirate.
I partigiani si muovevano su un territorio molto vasto dalla Valsesia, dove attaccarono il presidio di Romagnano e Fara, alle colline dell’alto Piemonte, costante mente bersagliati dalle brigate nere e dalla “X MAS”, fino alla primavera del 1945

Da sinistra in alto: Beniamino Franchi (Gianni), Maffioli di Voldomino (partigiano), Danilo Filius (Bob). Sotto: Cottini di Luino, Ivonne Melegari, un maresciallo degli alpini

Una guerriglia dura e sanguinosa, contrassegnata da molte perdite di vite umane.
Gli alleati spesso facevano dei lanci di viveri: farina d’uovo, zucchero, cioccolato, medicinali ecc. in corrispondenza con la cascina Bindellina, nei pressi di Castelletto Ticino.
Dal cielo piovevano anche armi, come sten, brenth, mitra, fucili, mitragliatrici e bombe a mano.
Erano soprattutto gli Inglesi collegati via radio con gli esponenti del C.L.N. Carabelli narra anche un altro episodio in cui Danilo Filius ebbe un ruolo decisivo.
1° Novembre 1944: una staffetta giunse inattesa all’Alpe Verdina per informare che a Castelletto Ticino cinque garibaldini, da tempo detenuti nelle carceri di Arona, erano stati fucilati dai fascisti della “X MAS” peraltro senza alcun processo.
Un drappello di partigiani verso sera decise allora di scendere a valle per incontrare il comandante della “Volante Azzurra”, “Taras” per definire un’eventuale azione punitiva.
Alla periferia di Colazza, nei pressi del cimitero, furono messi in allarme da voci concitate e da urla indistinte.
Sopraggiunse un garibaldino e riferì loro che stavano fucilando un giovane fascista, appena catturato.
Un comandante di distaccamento di nome “Lupo” aveva già schierato i suoi uomini per l’esecuzione.
Il condannato era un ragazzo di Silvera di nome Carlo Prina, 19 anni.
“Jonson” che conosceva da sempre la famiglia volle essere informato sulle motivazioni di quella sentenza sommaria.
Il giovane ebbe modo di raccontare la sua storia.
Prelevato da un reparto della “Muti” a Milano, era stato obbligato ad entrare nelle formazioni fasciste ed a prendere parte alle azioni di rastrellamento.
Durante una breve licenza, era però fuggito, aveva bruciato la sua divisa e consegnato il suo mitra e la sua pistola ad un partigiano di cui ricordava solo il nome, “Bob”.
Danilo Filius ne aveva, infatti, parlato con “Mitra” qualche giorno prima.
Chiamato a testimoniare, “Bob” confermò la versione dei fatti riferita ed il povero ragazzo fu salvo.
Sempre Carabelli nel suo libro narra un’altra coraggiosa impresa di cui fu protagonista, insieme ad altri, Danilo Filius.
Agli inizi di ottobre del 1944 due partigiani erano stati catturati dalle SS di Meina.
Per poterli sottrarre a sicura morte, l’unica arma possibile era il sequestro di due nazisti per avviare una trattativa di scambio.

Da sinistra in alto: Danilo Filius, Jonson; sotto un barbiere di Meina, un informatore e Gianni

Il giorno 10 ottobre, verso le cinque pomeridiane, un ardimentoso trio composto da “Mitra”, “Jonson” e “Bob” si avventurò alla ricerca di una difficile preda.
La sorte li favorì.
In un negozio di calzature, attraverso la vetrina, scorsero un maresciallo e un soldato tedeschi.
Quando uscirono, li seguirono quatti quatti sulla via del ritorno verso il loro comando.
Mitra alla mano, i partigiani ebbero la meglio e li obbligarono a fare dietrofront ed a seguirli all’Alpe Verdina.
Vennero poi costretti a scrivere sotto dettatura le condizioni per il riscatto.
Il giorno 16 ottobre, con l’intermediazione del parroco di Meina, don Apostolo, lo scambio avvenne senza incidenti nei termini e nella località stabiliti.
Sempre nel libro «Memorie di un ribelle» viene ricordata una triste vicenda in cui ancora una volta Danilo Filius ebbe un ruolo importante.
A metà marzo 1945, nove partigiani avevano perso la vita in un’imboscata.
Li aveva traditi un certo Vittorio di Dagnente, frazione di Arona.
Aveva teso loro una trappola con il pretesto di voler consegnare un certo quantitativo di armi, ma all’appuntamento si era presentato con i nazisti di Meina che li falcidiarono a colpi di mitra.
La rabbia dei compagni si tramutò immediatamente in un incoercibile desiderio di fare giustizia.
A “Mitra”, “Atos” e “Bob” l’ingrato incarico di arrestare il traditore.
Lo trovarono al bar, con in tasca ancora venti delle trenta mila lire, prezzo della sua “soffiata”.
Gli fu chiesto, senza tanti complimenti di firmare il verbale dell’interrogatorio, in cui ammetteva senza reticenze le sue responsabilità.
Fu subito inviato al comando della Brigata “Servadei” dove giustizia fu fatta.
Filius fece parte inoltre di una delicata spedizione a Brescia nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile.
Si trattava di rintracciare e di consegnare alla giustizia un noto esponente della criminalità fascista, un certo Velati.
Inutili si rivelarono tutte le ricerche: sembrava che il losco personaggio si fosse volatilizzato.
Un partigiano della SAP di Arona era stato però in grado, non si sa attraverso quali canali, di fornire l’informazione necessaria.
Velati si era rifugiato a Brescia nella speranza di far perdere le sue tracce.
Una squadra formata da “Mitra”, “Atos”, “Bob”, “Gordon” e “Gianni”, a bordo di un’auto giunse in città la sera del 28 aprile.
Il mattino successivo, dopo ore di ricerca, fu trovato in un’osteria, camuffato da partigiano dell’ultima ora, con il fazzoletto rosso al collo, che festeggiava con inconsapevoli garibaldini, ingannati dal suo millantato credito.
Velati sbiancò in viso e fu costretto a seguire il commando partigiano.
Dopo alterne vicende, fu riportato ad Arona, dove i partigiani dovettero faticare non poco per sottrarlo ai tentativi di linciaggio della folla inferocita.
Fu pertanto affidato ai carabinieri con l’ordine di consegnarlo al comando alleato di Novara.
Il 24 aprile, Bob fu uno dei primi ad entrare in Milano.
Dall’alto degli edifici c’erano ancora fascisti che sparavano all’impazzata sui partigiani.
Danilo ricorda con grande commozione la memorabile sfilata attraverso le vie della città.
Durante il discorso di Cino Moscatelli, commissario politico del raggruppamento delle divisioni garibaldine della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, era seduto proprio sulla sua autoblindo.
A Novara in seguito si costituì un corpo di polizia ausiliaria di cui Danilo fece parte col grado di maresciallo, anche se prima aveva conseguito il grado di sottotenente.
Prestò servizio fino al 30 novembre 1946.
Congedatosi, nel 1948 poté finalmente coronare un lungo sogno d’amore, sposando Esterina Isabella, che aveva conosciuto quando lei aveva solo 14 anni e lui 18.
Un amore adamantino che si è consolidato negli anni con la nascita delle due figlie Patrizia e Tiziana.
Ora Esterina e Danilo hanno celebrato il loro 65° di matrimonio circondati dalle figlie, dai generi, dai nipoti e perfino dalla pronipote Angelica, l’ultimo anello, almeno per ora, di una famiglia costruita sulle solide fondamenta di un amore che non si lascia scalfire dal tempo.